Sabato di sole ritrovato. Sabato di freddo conosciuto.
Il verde della piana del Tenna è ghiacciato. A Servigliano, verso monte, lo scenario muta. Neve. La carreggiata si restringe. Il bianco candido della campagna diventa nero ai bordi della strada.
Una nebbia orizzontale avvolge la parte appena sottostante le cime di Vettore, Sibilla e Priora. Il pensiero va al monte Olimpo raccontato dalla mitologia, circondato da una nebbia che impediva la vista di Giove e la sua corte intenti a mangiare ambrosia e bere nettare.
Meta è il Santuario dell’Ambro, a Montefortino. Al bivio con Montefortino, scendendo, la strada si fa ancora più stretta. Dopo Piedivalle, è a una carreggiata e mezzo. Alla mia destra fuggono, ingolfandosi nella neve alta, quattro cuccioli, marrone chiaro, di capriolo o di cervo, non so. Del terremoto i segni sono solo alcune roulotte parcheggiate dinanzi alle poche abitazioni.
Il Convento e la chiesa della Madonna dell’Ambro sono silenziosi. Non c’è anima viva. La neve – mezzo metro e oltre – è ghiacciata. Ci si cammina su. Supero il ponticello. C’è una piccola «rotta» sino al boschetto, ma è lastricata di gelo invisibile.
Riattraverso il ponte e salgo dietro al Santuario. Mi tornano i versi di Dante e del guerriero Bernardo fattosi monaco: «Vergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d’etterno consiglio…».
L’aria punge, è presto, il sole ancora non arriva.
«Ibis redibis non morieris in bello». La mente è strana. Va per suo conto. Chissà da quale profondo scaffale riemerge il responso della Sibilla ad un soldato. Me la ripeteva mio padre nel lettone della domenica. Responso sibillino. Bastava spostare il «non» e il vaticinio mutava di significato: andrai, tornerai, non morirai in guerra; oppure: andrai, tornerai non, morirai in guerra.
Dopo l’invocazione alla Vergine, mi è venuto di chiamare a gran voce la Sibilla. Di interrogarla, per le tragedie e i drammi di questi mesi. Ho immaginato domande e risposte. Le avrei detto di averla cercata. Mi avrebbe risposto di saperlo già. Le avrei detto che il suo volto non era bello oggi: era arcigno, non quello che immaginavo. M’avrebbe risposto che forse era così. M’avrebbe chiesto lei quanto la conoscessi. Avei risposto: per quel che si può. Avrei aggiunto che volevo domandarle perché il suo ventre avesse ruggito e ruggito così a lungo. Forse m’avrebbe detto di non essere la responsabile, di aver udito anch’ella l’urlo della terra. Poi avrebbe fatto silenzio, lunghi momenti di nulla e di tutto. Per dirmi: «E se il ruggito fosse il mio travaglio, il mio dolore, la mia infelicità?». E avrebbe aggiunto le parole di Saffo: «La notte è a mezzo del suo corso, la luna e le Pleiadi sono tramontate e io giaccio nel mio letto… sola». Un’immensa solitudine.
Da Balzo rosso il sole è arrivato al Santuario. Torno in auto.
Più avanti l’Anas ha iniziato a sgombrare le ultime strade bloccate.
Ad Amandola una specie di turbina cingolata è in movimento.
La gente fa acquisti. I soldati camminano la piazza. Gesti normali.
E se l’infelicità e la solitudine della Sibilla fosse la nostra, se intendesse porci dinanzi ad un ultimo quesito: «Ed io che sono?».
di Adolfo Leoni